Sanità e Medicina

Fine Anno. Tempo di bilanci, ma anche di verità

Per noi la bussola è e rimane la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (CRPD), ratificata dal nostro Paese una generazione fa: abbastanza tempo, crediamo, per poter misurare risultati e mancanze. La fine dell’anno è uno di quei momenti in cui non serve aggiungere nuove parole, ma restituire peso a quelle che da anni ripetiamo, senza tangibili conseguenze purtroppo, e allo stesso tempo tirare le somme con onestà. Non pretendiamo di farlo in poche righe: proveremo solo a fissare alcune considerazioni essenziali.

La prima è la conferma di come la principale criticità di fondo sia di natura culturale. Ciò lo dimostra chiaramente, ad esempio, il lungo percorso della proposta di legge sull’inclusione nel mondo del lavoro. È da oltre dieci anni che circola una bozza di decreto legge sulla quale, nel 2019, dopo anni di confronto, si era finalmente sciolto il nodo politico. Le parti sociali ed economiche avevano espresso un assenso di massima, e il tema sembrava finalmente riconosciuto e condiviso. Poi il Governo all’epoca in carica cadde prima del termine naturale e, con esso, anche quel decreto. Da allora sono passate quasi altre due legislature e quel provvedimento non ha ancora visto la luce. Oggi, lo scoglio pare sia la differenza di vedute tra chi vuol una norma limitata al pubblico (messaggio misero e regressivo) e chi ritiene giusto coinvolgere anche il privato, come è normale che sia. Ma al di là di ogni giustificazione contingente, è sufficiente questa vicenda per raccontare una verità che a San Marino continuiamo a evitare: le persone con disabilità sono ancora percepite come un peso, una tassa, una voce di spesa da contenere, non come cittadini titolari di diritti alla stregua di chiunque altro. E quando questo è l’impianto e lo sguardo culturale di fondo, nessuna legge, pur animata da impegno e volontà, può davvero cambiare le cose.

Non a caso, pur avendo ratificato la CRPD diciotto anni fa, il modello sociale basato sui diritti umani, che essa stabilisce e promuove, non è mai riuscito a incidere realmente nei contesti decisionali, amministrativi ed economici. Quel modello è rimasto confinato nei documenti, nei convegni, nelle dichiarazioni di principio; non ha mai “toccato palla” nella vita reale delle persone. Siamo ancora saldamente ancorati al modello cosiddetto medico, assistenzialista, paternalistico e caritatevole. Cambiare paradigma non è un vezzo: per gli Stati Parte è un dovere costituzionale, democratico e umano.

Come se ciò non bastasse, in questo disimpegno politico e istituzionale, e nel contesto culturale che lo alimenta, si inserisce un altro fenomeno insidioso e distorto: un surrogato di “inclusione”, regolata dai rapporti di forza e di conoscenza tra la singola organizzazione, la famiglia o il cittadino e chi amministra la cosa pubblica. Un sistema che finisce per prestare attenzione solo ad alcuni, mentre altri vengono esclusi nella totale indifferenza. Le regole e i diritti, in pratica, sembrano dipendere dall’interlocutore di turno, dalla capacità di insistere senza “disturbare” o dalle “conoscenze giuste”, anziché dalla pluralità delle esigenze.

Il settore dello sport rappresenta un caso emblematico: manca trasparenza, non esiste una visione d’insieme, né una programmazione e una promozione nazionale che includano ogni tipologia di disabilità. Si interviene su singoli casi e le risorse vengono destinate solo ad alcune esperienze, senza criteri chiari e senza una cornice di opportunità e diritti per tutte le persone con disabilità. Questo meccanismo non è un errore: è il prodotto stesso del sistema. In queste condizioni, una vera inclusione non esiste.  

Sempre a proposito di etichette rassicuranti buone per dire che qualcosa c’è quando in realtà manca, potremmo citare anche la questione del Progetto di Vita (PIV). In alcune dichiarazioni pubbliche se ne è parlato come se fosse uno strumento attivo e a regime, quando nella realtà, invece, non esiste. Non c’è una procedura codificata e pubblica. Sul PIV, peraltro, abbiamo dato recentemente piena disponibilità a sederci a un tavolo per elaborare una proposta di legge concreta. Non un maquillage al sistema esistente, ma un vero reset. Un patto nuovo, che parta dalla persona, dalle sue scelte e dai suoi desideri e che sappia anche dare fiducia alle famiglie rispetto alle incognite da incubo del “Dopo di Noi”. Perché, anche in questo caso, senza norme certe, chiare, pubbliche, trasparenti ogni intervento rischia di restare arbitrario, favorendo proprio quelle disuguaglianze che, a parole, diciamo di voler combattere. Ad oggi, nessun riscontro.

La carenza di risorse economiche viene spesso utilizzata come spiegazione universale, buona per ogni stagione, per giustificare lo stallo nell’attuazione della CRPD. Ma ciò che pesa davvero è la mancanza di una chiara volontà di superare inerzie strutturali e logiche e interessi consolidati. Potremmo continuare parlando delle carenze e delle difficoltà di accesso alle informazioni, dove c’è urgente bisogno di innovazione e completezza, per garantire a chiunque di comprendere quali siano i servizi disponibili, le agevolazioni previste e il reale livello di assistenza spettante per diritto, senza lasciare spazio a incertezze, interpretazioni o discrezionalità. E potremmo proseguire ancora con altri esempi, ma terminiamo con un tema a noi molto caro: quello della Vita Indipendente.

È giusto, anzi doveroso, sostenere i caregiver e le famiglie, ma se il focus resta esclusivamente su di loro e non si sposta sulla persona con disabilità, il sistema continua a mancare il bersaglio. Anche in questo caso, senza cambio di prospettiva restano senza risposta questioni fondamentali: la vita indipendente, l’autodeterminazione, la capacità e dignità giuridica, la prevenzione delle discriminazioni, il rischio di abusi e violenze, spesso invisibili proprio nei contesti ritenuti “protettivi”.

La CRPD, agli articoli 12 e 19, parla chiaro: capacità giuridica su base di uguaglianza con gli altri e diritto a vivere nella comunità, scegliendo come e con chi vivere. Non sono principi astratti: sono obblighi.

Il nostro Stato, solo nel settore socio-sanitario e unicamente per gli stipendi del personale, spende ogni anno circa 20 milioni di euro. Da tempo chiediamo di introdurre la figura dell’Assistente Personale autogestito, liberamente scelto e finanziato con risorse pubbliche su base progettuale: uno strumento già adottato in molti Paesi perché più efficace, anche sotto il profilo del risparmio economico. Eppure, ad ogginon si registra alcuna disponibilità ad aprire un confronto serio su questo tema, né sulla Vita Indipendente in generale e, figuriamoci, nemmeno su come e dove le risorse vengano impiegate. Con rammarico, dobbiamo anche prendere atto della frenata di alcune forze politiche, oggi al Governo, che in passato avevano mostrato sensibilità e sostegno verso questa prospettiva.

La Commissione CSD ONU sta mostrando una crescente inefficacia, non certo per responsabilità delle persone che ne fanno parte, ma per il mandato con cui è stata concepita e istituita, che non le consente di incidere realmente. Per questo sarebbe necessario riformarla, affinché possa avere un ruolo più rilevante e autonomo.

Mentre noi cincischiamo da decenni su norme che dovrebbero essere sacrosante, altrove il dibattito è già più avanti: cambiamento climatico, intelligenza artificiale, contrasto all’abilismo e alle discriminazioni sistemiche, mobilità globale, alloggi accessibili e molto altro. Il 2026, ventennale della CRPD, dovrebbe essere un anno di rivendicazione dei diritti umani delle persone con disabilità e di lotta contro le discriminazioni che vivono costantemente.

La verità, in definitiva, è molto semplice: senza risorse, senza governance e senza un reale cambio di paradigma, le parole finiscono per creare l’illusione che il sistema funzioni, mentre nella realtà ciò che serve continua a mancare. In questo contesto, almeno un esame di coscienza e una sincera assunzione di responsabilità sarebbero non solo utili, ma necessari: altrimenti le parole restano etichette appese al futuro.

La nostra speranza sta in un cambio culturale e di metodo: dalla retorica ai diritti. Il nuovo anno ci chiama a scelte nuove, il Consorzio EticoSM è una di queste, e come Attiva-Mente, nel nostro piccolo, continueremo a fare la nostra parte.

Attiva-Mente (comunicato stampa)