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Boris Johnson: ‘Non rinvierò la Brexit’

Il Parlamento britannico chiude i battenti per cinque settimane, per volere di una contestatissima decisione del governo Tory di Boris Johnson, mentre il Regno Unito resta in mezzo al guado della Brexit. E lo speaker della Camera dei Comuni, John Bercow, annuncia clamorosamente le sue dimissioni in aula, in aperta polemica con il primo ministro. Il caos politico che agita il Regno Unito a meno di due mesi dalla scadenza ufficiale del 31 ottobre, data della teorica uscita dall’Ue a oltre tre anni dal referendum del 2016, si colora di fuochi d’artificio a Westminster nella giornata che segna l’avvio della cosiddetta prorogation: l’interruzione post-estiva delle sedute reinventata dall’esecutivo nella dimensione di una pausa-fiume rispetto al rituale strumento ordinario della durata di pochi giorni che era.

Una sospensione che lascia il Paese nell’impasse. E soprattutto lascia irrisolto il muro contro muro fra il premier e la maggioranza dei parlamentari sia sulla questione di un ulteriore rinvio di tre mesi della Brexit sia sui tempi della convocazione di nuove elezioni anticipate, con la sonora bocciatura nella notte per la seconda volta della mozione presentata da Johnson per cercare di ottenere la convocazione delle urne il 15 ottobre: un obiettivo rinviato ormai almeno a novembre, come il premier ammette, non senza reagire alla trappola in cui rischia di ritrovarsi accusando gli oppositori di volersi sottrarre al giudizio “del popolo sovrano” per “paura” di perdere, ma di non potere sfuggire a lungo alla resa dei conti. E ribadendo a questo punto l’impegno a cercare un nuovo accordo di divorzio con Bruxelles entro il Consiglio Europeo del mese prossimo, ma senza alcuna disponibilità a cercare alcuna proroga oltre il 31 ottobte.

L’addio di Bercow – battitore libero proveniente dai banchi conservatori e divenuto universalmente noto in questi mesi di dibattiti per i pittoreschi e perentori richiami alle regole al grido “order, ordeeeer!” – ha avuto toni polemici e momenti molto emotivi. Con lo stesso speaker sull’orlo delle lacrime quando nel suo statement si è rivolto alla moglie Sally e ai familiari presenti in galleria. Uno statement accompagnato dalle ovazioni esibite in piedi delle opposizioni e da tutti i contestatori di BoJo, in stridente contrasto con i volti scuri di buona parte dei rappresentanti del governo. Bercow ha rivendicato di essere stato il difensore dei diritti dell’aula e dei ‘backbenchers’, i deputati semplici delle retrovie, non senza ricordare i 10 anni da speaker come “l’onore e il privilegio più grande”. Replicando indirettamente a chi lo ha accusato di aver favorito in alcune occasioni il fronte anti-Brexit, ha quindi sostenuto d’aver sempre e solo protetto il ruolo della Camera: “I parlamentari non sono delegati, ma rappresentanti del popolo. Degradare il Parlamento è un pericolo”, ha ammonito.

Parole salutate dal tributo trionfale incassato dal leader laburista Jeremy Corbyn (che lo ha esaltato come “uno speaker superbo” e riformatore, ringraziandolo per aver reso “più forti il Parlamento e la democrazia”), da una sfilata di esponenti d’opposizione e da Tory ed ex Tory ostili a Johnson. Oltre che dall’omaggio più manierato, per quanto cavalleresco, del ministro Michael Gove a nome dell’esecutivo; e dalla frecciata velenosa via Twitter di almeno un avversario a viso aperto, l’euroscettico Nigel Farage (“bene che ce ne liberiamo”). Le dimissioni, ha spiegato il presidente ormai uscente dell’assemblea, diverranno esecutive non appena la Camera darà il suo ok al voto anticipato. E comunque al più tardi il 31 ottobre, alla scadenza del giorno X sulla Brexit.

Una scelta di tempo che taglia fuori il gabinetto, al momento privo di maggioranza, sull’elezione immediata d’un successore. Ma anche una mossa che evidenzia il clima di scontro e la pressione crescente su Johnson, bloccato nella corsa verso le urne dal muro delle opposizioni. Reduce da Dublino, dove ieri ha incontrato il collega Leo Varadkar sullo spinoso dossier della garanzia del backstop a tutela del confine aperto irlandese e degli accordi di pace del Venerdì Santo, il premier ha abbassato del resto un po’ i toni della retorica su un accordo di divorzio con Bruxelles definito ancora possibile. E tuttavia ripetendo – incoraggiato se non altro da un dato sul Pil di luglio migliore del previsto, al +0,3%, che allontana per ora l’ombra della recessione – come la data del 31 ottobre resti per lui invalicabile, a dispetto dell’entrata in vigore definitiva, col Royal Assent della regina, della legge anti-no deal approvata per obbligarlo a quel rinvio che egli continua a escludere. Ma che non è chiaro come possa adesso aggirare, cavilli a parte, se non dimettendosi. O rischiando un impeachment e di essere trascinato in tribunale.

Fonte ANSA

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