Omelia pronunciata dal Vescovo Mons. Andrea Turazzi in occasione della Festa di San Marino
Eccellentissimi Capitani Reggenti,
Autorità civili e militari,
Carissimi sorelle e fratelli, presenti e collegati in diretta tv, il mio più cordiale saluto.
Buona festa di San Marino.
È trascorso un altro anno. C’è stato l’impegno di tanti per migliorare sempre più la qualità di vita dei cittadini. Vita spirituale e vita civile. Ci siamo misurati con emergenze drammatiche e successive: il contenimento della pandemia, con risposte efficaci; la guerra e le sue conseguenze, con il giudizio, con gli aiuti e con l’accoglienza; ora ci interpella la crisi energetica che incombe su imprese e famiglie. Poi, la ripresa, dopo il Covid, di tante iniziative per la gioventù: nella scuola, nello sport, nell’università, mentre si affrontano la sofferenza e il disagio con la presenza delle istituzioni e del volontariato. Affidiamo all’intercessione di san Marino preoccupazioni, speranze e sfide.
Permettete un ricordo commosso per le famiglie che piangono, in questi giorni, per la perdita dei loro ragazzi: Simone e Giada. Ci stringiamo sinceramente a loro con l’affetto e con la preghiera.
In un’unica festa celebriamo la fondazione della nostra comunità civile e il santo Fondatore Marino. Nella stessa comunità la dimensione civile e la dimensione religiosa si intrecciano. Sono chiamate ad essere unite, ma non confuse, inseparabili ma senza prevaricazioni. San Marino – a quanto è dato ricostruire – non intese fondare una comunità religiosa, un monastero a cielo aperto, né un sistema integralistico, ma una società fraterna, dove si dà «a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21). La liturgia ci suggerisce di interpretare questa forma di società sull’esempio della comunità cristiana degli inizi: «I cristiani erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nella unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere… Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune» (At 2,42.44).
Da sempre la nostra tradizione ha promosso, più o meno consapevolmente, più o meno felicemente, il valore e la pratica della laicità, facendo vivere insieme persone di diverse convinzioni e orientamenti.
Questa laicità trae uno dei suoi punti di forza dalla visione integrale della persona (propria dell’antropologia cristiana). Chi non è credente non tema le radici cristiane della nostra comunità, è proprio su queste radici che si fonda il rispetto e la libertà di ognuno. La nostra libertà è reale, non per concessione di qualcuno, ma perché fondata sulla dignità della persona.
D’altra parte, chi è credente può contare sul rispetto e la considerazione di chi, di altra convinzione, professa la laicità come valore.
Laicità è anzitutto accoglienza dell’altro, del suo patrimonio ideale, della sua storia, dei suoi diritti ad avere spazi e mezzi, insieme ai doveri, di manifestare pubblicamente il proprio pensiero e di intraprendere iniziative secondo il principio di sussidiarietà (riconosciuto universalmente). La vera laicità è molto più della tolleranza, è più della semplice cortesia, è simpatia verso il dono che ognuno può portare all’insieme.
Riflessioni troppo ideali? Sappiamo tutti che la convivenza comporta diversità, tensioni e persino conflitti. Realisticamente. È stato così in passato. Lo è nel presente. Per fortuna possiamo imparare a gestire i conflitti nella diversità delle ragioni.
Credenti e non credenti siamo consapevoli che le nostre origini vengono da un santo della Chiesa Cattolica. È per questo motivo che, insieme e gioiosamente, facciamo memoria del santo Fondatore con questa solenne celebrazione e con la processione per le vie della città. Anche questo dato storico fa parte della nostra peculiarità, ci costituisce – appunto – sammarinesi. Certo, siamo anche aperti al nuovo, alla modernità, alla inclusione, agli sviluppi della cultura: «Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri» (Fil 4,8).
Non posso non condividere con questa assemblea la lacerazione nel cuore che, come cattolici, abbiamo vissuto e stiamo vivendo in questo tempo, a proposito della legge che consente la pratica dell’aborto. Questione delicata che ha a che fare con la dimensione religiosa (principi di fede) e con la dimensione sociale (insieme principi di fede e principi di ragione). Nessuna legge che ammette la soppressione della vita nascente è buona: la vita è sacra e inviolabile. Sempre. Molto si è lavorato attorno a questa legge e si è fatto il possibile per recepire istanze morali. Rimane il principio secondo il quale ciò che è legale non sempre è morale. Un esempio: la schiavitù ai tempi di san Paolo era legalizzata, ma l’apostolo chiede a Filemone (un discepolo) di considerare Onesimo non uno schiavo, ma come un fratello in Cristo (cfr. Filemone).
Ci si è messi dalla parte delle donne. Consentitemi una domanda: «Davvero?». Davanti ad una gravidanza indesiderata, davvero l’opzione “interruzione” giova, in qualche modo soccorre la domanda, il grido di vita che è proprio della donna?
Ci si è messi dalla parte delle donne, e più che giustamente: portano la gioia ma anche la fatica del grembo, e soprattutto portano secoli di prepotenze e abusi. Ma non sono l’unico soggetto: che dire del nascituro? Che dire del padre? Che dire della società, famiglia umana?
Questo è il momento più adatto per rinnovare il nostro impegno a favore di una cultura della vita e della famiglia; tra l’altro non è secondaria la questione demografica e soprattutto quella educativa: accompagnare i giovani alla comprensione dell’affettività e della corporeità. Costruiamo ponti di collaborazione. Proprio in nome della dignità della persona quale “assoluto umano” (E. Mounier) esprimiamo, come cristiani, il massimo rispetto per gli eventi e le diversità che possono manifestarsi e segnare i nostri giorni. Guardiamo avanti. Facciamo di tutto per prevenire, per quanto possibile, l’interruzione volontaria della gravidanza. Tutti concordiamo, comunque, che è un dramma umano che tocca tutti.
Mi piace citare un celebre passaggio dalla Lettera a Diogneto, un documento antico, dei primissimi secoli cristiani, che già prefigura il rapporto cristiano-società: «I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. […] Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. […] A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani». Concludo con la preghiera: «Signore, che hai chiamato il santo diacono Marino a riunire una comunità di credenti conforme allo stile di vita della Chiesa dei primi tempi e l’hai posta sul monte perché fosse glorificato il tuo nome, concedi a noi di proseguire con fedeltà l’opera da lui iniziata». Così sia.